È uscito il World Alzheimer Report, l’aggiornamento annuale che, a livello mondiale, fa una revisione sistematica delle previsioni relative a prevalenza, incidenza e costi sanitari e sociali della demenza, in particolare di Alzheimer. I dati, anche quest’anno, sono piuttosto allarmanti: si stima che vi sia un nuovo caso di demenza ogni tre secondi, che ogni anno fa un totale di dieci milioni di diagnosi.
Le cause principali del fenomeno – noto ancora solo in parte – sembrerebbero risiedere nell’aumento dell’aspettativa di vita, quindi nella popolazione che invecchia, che si associa a fattori di rischio come…
- malattie cardiovascolari
- diabete
- fumo
- scarso esercizio fisico
Non a caso, gli esperti dell’Alzheimer’s Research UK parlano di “emergenza sanitaria globale”, soprattutto in riferimento ai costi che, dagli 800 miliardi di euro l’anno odierni, potrebbero, secondo le previsioni, arrivare a mille miliardi in tre anni.
In questo momento la ricerca sta cercando di comprendere quale sia la causa dell’accumulo di beta-amiloide, proteina che, aggregandosi in ammassi, altera le comunicazioni tra le sinapsi, e il suo ruolo effettivo nel decorso della malattia. Tra gli ultimi studi rilevanti in tal senso c’è quello pubblicato sul New England Journal of Medicine che ha esaminato un gruppo di pazienti con predisposizione genetica allo sviluppo dell’Alzheimer rilevando come la quantità di beta-amiloide nel cervello cominci ad aumentare con quindici anni di anticipo rispetto all’esordio dei sintomi. Ecco, dunque, un altro motivo per cui è particolarmente importante diagnosticare l’Alzheimer in modo precoce e tempestivo! Quindici anni son tanti – sufficienti? – per intervenire e cercare di contrastare l’arrivo disastroso della demenza.
Ma possiamo già pensare a una terapia per l’Alzheimer?
Secondo alcuni ricercatori, la terapia sarebbe proprio quella preventiva. Bisognerebbe cioè attaccare la beta-amiloide quando questa non si è ancora cristallizzata nelle placche. Una sperimentazione che sta producendo dati incoraggianti è quella che gli studiosi stanno conducendo sul solanezumab, molecola che avrebbe una certa efficacia nella riduzione di beta-amiloide nelle prime fasi della malattia.
Procedendo di pari passo con la ricerca, però, è indispensabile che in qualche modo si arginino le difficoltà personali e quotidiane che pazienti e famiglie vivono quando la malattia arriva, e poi quando si evolve al punto da rendere la persona che ne è affetta completamente dipendente. Per far fronte alle drammatiche situazioni che si possono verificare a causa dell’agitazione psicomotoria e del disorientamento, ad esempio, di recente è stato firmato un protocollo d’intesa tra i ministeri dell’Interno, della Salute e del Lavoro e il Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse per scongiurare il pericolo che un soggetto colpito da Alzheimer (o altro tipo di demenza) si smarrisca e non riesca più a tornare a casa, che prevede l’utilizzo di un dispositivo elettronico dotato di GPS per la localizzazione satellitare.
Infine, il rapporto chiude con alcune raccomandazioni avanzate da Alzheimer’s Disease International (ADI):
1. la riduzione del rischio di demenza deve diventare una priorità esplicita nelle attività condotte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e deve includere azioni chiare, collegate a obiettivi e indicatori specifici;
2. gli investimenti nella ricerca devono essere potenziati e proporzionati al costo sociale della malattia; devono essere equamente distribuiti tra prevenzione, trattamento, assistenza, e cura.