Di psicologia, tra psicologi e con gli utenti, sui social se ne parla molto, ma forse non ancora abbastanza. Io ho creato la pagina facebook associata a questo sito web quasi dieci anni fa, quando ancora erano poche le persone sui social, figuriamoci i professionisti.
Oggi i social sono a tutti gli effetti una piazza nella quale esporre la propria attività e il proprio lavoro, con diversi scopi, da quelli più collettivi (pensate alla politica professionale) a quelli più individuali (aumentare il numero di utenti del proprio servizio).
Una collega che segue da vicino il fenomeno dell’uso dei social da parte degli psicologi è Paola Serio, con la quale, in occasione dell’evento La Psicologia nel Terzo millennio che si terrà a Firenze il 24 novembre, ho avuto il piacere di confrontarmi sul nostro ruolo dentro questi spazi relazionali digitali.
Indice
Paola, di cosa parlano gli psicologi sui social?
Gli psicologi parlano prevalentemente di se stessi e a se stessi. Pochissimi di noi cercano di inserirsi in discussioni che coinvolgono altri soggetti professionali o bacini di utenza specifica.
Non avrei saputo dirlo meglio, ho esattamente la stessa percezione. Una cosa che noto, poi, sono i contenuti scarsamente originali e creativi: le pagine degli psicologi sono piene di aforismi e frasi fatte. La cosa più simpatica? Gli psicologi spesso invitano sulle loro pagine altri psicologi. Ora, potremo pure avere bisogno di una terapia personale a un certo punto, nella nostra carriera, ma siamo sicuri che questa sia una strategia di marketing sensata? Io sono piuttosto sicura del contrario…
Qual è il valore aggiunto della psicologia sui social, secondo te?
Potenzialmente enorme. Di fatto noi, come esperti della complessità, avremmo modo di dare uno sguardo sui fenomeni di massa più ampio e organizzato ma non investiamo tempo in questo ambito. Non cerchiamo di capire come adattare la comunicazione per renderla idonea e fruibile per gli utenti su queste piattaforme.
Parliamo il tecnichese, aggiungerei, perchè non sappiamo ancora bene semplificare o peggio perchè pensiamo che il linguaggio complesso ci serva a darci un tono. Persino i siti di molti professionisti sono molto lontani da ciò che un potenziale utente cerca. Un esempio per rendere l’idea: si fanno liste di patologie trattate, dando per scontato che la persona che sta consultando il nostro biglietto da visita digitale sappia già cos’ha, prima ancora di aver avuto il primo contatto con lo psicologo.
In che modo i social possono cambiare la percezione del problema che una persona vive, della salute mentale
I social sono luoghi di incontro. È in atto, a mio avviso, una grossa crisi della socialità, intesa in senso classico: i circolini, le piazze, i quarteri… non sono più sentiti come spazi d’incontro. Non ci si conosce più nemmeno tra vicini di casa: si è liquefatta quella che chiamavamo “rete sociale”. La socialità oggi passa attraverso il “fare qualcosa” che di solito è legato ad una performance, ad esempio corsi di formazione, attività sportive… è facile che, chi si sente in difficoltà, scivoli rapidamente nell’isolamento senza che nessuno si renda conto in tempo del suo ritiro sociale. Sicuramente il social potrebbe aiutare, in prima istanza, ad uscire dall’isolamento. Potremmo considerarlo un surrogato della rete sociale. Spesso infatti capita di accorgersi, tramite l’osservazione del comportamento sul social di qualcuno che conosciamo, di un suo momento di difficoltà. Inoltre il social offre spazi di incontro per persone che possono condividere un’esperienza difficile o un disagio soggettivamente significativo. Il rischio però è che si riduca tutto al social, esacerbando l’isolamento ed indirizzando verso una sorta d’incapsulamento autistico. È un rischio che noi come categoria dobbiamo prevedere e governare nel processo. Se infatti in questi luoghi non si trova una offerta di aiuto, oppure, peggio, si trova più facilmente una offerta di aiuto non idonea in quanto non professionale, abbiamo noi prima di tutto un problema poiché siamo e siamo chiamati dalla società ad essere prima di tutto garanti della salute mentale della collettività.
Qual è l’utente che segue lo psicologo sui social (se ci sono, dati e statistiche di chi ci segue, interessi)
Per quella che è la mia esperienza con La base sicura sono prevalentemente donne tra i 25 e i 44 anni. È vero però che la nostra pagina è molto targhettizzata in base al servizio che offriamo. Quello che posso notare è che sicuramente dipende anche dal social. Per esempio è difficile trovare un adolescente su Facebook, di solito a quell’età preferiscono Instagram e Youtube. È vero anche che è più raro che un ragazzo utilizzi quel genere di spazio per formulare una richiesta di aiuto e che quindi “segua” direttamente un professionista. L’importante è cercare di creare qualcosa che corrisponda al tipo di servizio e di attività che offriamo. In linea di massima ho notato, come dicevo precedentemente, che come categoria siamo molto autoreferenziali, le pagine di psicologi sono seguite spesso da altri psicologi (questo anche perchè, come scrivevo sopra, i colleghi si invitano compulsivamente tra di loro, ndr) e i contenuti non sono pensati per l’utenza. Forse il timore è di banalizzarli o risultare riduzionisti?
I contenuti non sono pensati per l’utenza, dice Paola, e con me sfonda una porta aperta: credo che gli psicologi abbiano difficoltà a parlare la lingua che l’utente vuole ascoltare.
Provo ad aggiungere un pezzo a questa storia prendendo in prestito il cosiddetto funnel delle vendite, che per me ben si adatta al percorso che il paziente fa prima di scegliere il professionista da una pagina Facebook (e che non si applica al sempre vincente passaparola).
Ebbene, se, come il marketing ci insegna, per rivolgerti a un utente, accogliere un suo bisogno, devi parlare dell‘utente, il 90% delle pagine professionali degli psicologi sbaglia: lo psicologo parla di sè, in prima persona, raccontando chi sia lui, quante specializzazioni abbia; informazioni sicuramente importanti al quale l’utente deve avere accesso, ma che si posizionano troppo presto nel percorso che l’utente naturalmente segue prima di acquistare un prodotto o un servizio, anche sanitario.
In pratica parlare di sè in quanto psicologo risponderebbe alla fase della valutazione, la quarta. Ma l’utente / paziente valuta (Evaluation) e sceglie (Buy) lo psicologo prima di aver sviluppato la consapevolezza (Awareness) della necessità a migliorare qualcosa di sè, prima della ricerca autonoma (Discovery) e della decisione di rivolgersi a un professionista (Intent)? Naturalmente NO.
Quanti utenti di una pagina social diventano utenti paganti degli psicologi? (Qualcuno le chiama conversioni)
Dati è difficile averne, dipende anche da come formuliamo il concetto. Se infatti mi chiedi la percentuale di conversione diretta, ovvero quante persone ti cercano su facebook e ti contattano attraverso quel canale, ti direi che è bassa. So ad esempio che ci sono stati esperimenti (fatti da pagine con anche milioni di followers) di chat bot che indirizzavano l’utente verso il professionista più vicino in base alla collocazione geografica ma non sono andati tanto bene in termini di invii effettivamente riusciti. È più facile che un utente ti contatti per avete una risposta “cotta e mangiata” formulata su un problema specifico (confermo, è successo anche a me! ndr), ma difficilmente poi risulta interessato ad intraprendere un percorso insieme. Se però concettualizziamo questa domanda in un senso più ampio di expertise e reputation allora, a mio avviso, i numeri sono decisamente diversi.
È più facile che un professionista che si propone sui social come “esperto” di qualcosa poi venga considerato tale, questo anche a dispetto della sua reale esperienza e competenza che sul social è difficile testare pienamente. Quindi si genera “la magia” che nelle menti di un ipotetico inviante si crei l’associazione tra un tale professionista e una determinata competenza, non perché c’è stata una collaborazione pregressa o perché si è a conoscenza del percorso di studi specifico, ma semplicemente perché siamo venuti frequentemente a contatto con questa informazione su piattaforma digitale e quindi ci viene in mente, prima di un altro, proprio quel nome. È questa la natura bifronte del social, affascinante come il perturbante di Freud.
Un tema che mi sta molto a cuore è quello del debunking. Da Wikipedia: la pratica di mettere in dubbio o smentire – basandosi su metodologie scientifiche – affermazioni false, esagerate, antiscientifiche. Paola, secondo te spetta a noi? Conosci sasi di successo in cui gli psicologi hanno fatto la differenza?
In alcuni casi spetta decisamente a noi. Se per esempio pensiamo alla caccia al Gender nelle scuole avvenuta qualche anno fa non possiamo fare a meno di ricordare la valanga di contenuti che molti professionisti hanno prodotto per diffondere una informazione scientifica corretta e normativamente corroborata. Credo che questo abbia effettivamente fatto la differenza.
Informazione o abuso? Ho l’impressione che a volte un marketing un po’ ingenuo prevalga sul buonsenso e sulla professionalità degli psicologi. Faccio un esempio: le normative pubblicitarie di Facebook ti impediscono di mettere in evidenza (fare post sponsorizzati, a pagamento) contenuti che fanno riferimento a uno status o a una possibile condizione dell’utente che legge. Ricopio da Facebook: Le inserzioni non devono includere contenuti che esplicitano o implicano caratteristiche personali, comprese affermazioni o insinuazioni dirette o indirette in merito a razza, origini etniche, religione, credo, età, orientamento o pratiche sessuali, identità di genere, disabilità, patologie (inclusi problemi di salute fisica o mentale), situazione finanziaria, iscrizione a un sindacato, casellario giudiziale o nome di una persona.
E se ci pensiamo ha perfettamente senso: stiamo parlando a qualcuno facendo leva su una sua difficoltà, come fosse un amo comunicativo. Non è carino. Ora, come psicologi dovremmo avere la sensibilità di comprenderlo, eppure io di post “soffri di ansia???”, “hai avuto un lutto???”, “sei depresso???” ne leggo almeno tre al giorno.
Tu, Paola, come vedi le capacità di marketing degli psicologi?
Credo di aver già risposto a questa domanda in precedenza: c’è il “rischio” che effettivamente ad un marketing ben pensato ed efficacemente strutturato non corrisponda una reale competenza specifica e viceversa ovviamente. Chi non padroneggia un argomento rischia anche di diffondere messaggi parziali o scorretti, questo a danno di tutta la categoria. Non vi è però la possibilità di controllare, da parte dell’autorità competente, ciascun contenuto. Questo però, a mio avviso, non dovrebbe spingerci a pensare di restringere il campo o demonizzare il comportamento di marketing tout court. Credo ci debba spingere ad approfondire l’argomento e ad organizzare e partecipare a momenti di formazione nell’ambito. Mi è capitato di partecipare ad esempio al workshop organizzato dall’ENPAP “Progetta e migliora la tua carriera!” che insegnava ad utilizzare il Personal Business Model Canvas per avviare la propria attività e l’ho trovato decisamente utile. Ora so che ne hanno organizzato un altro “Dal Personal Branding al Social Selling” che si propone di stimolare la visione strategica, i motivi e le logiche che consentono di prendere determinate scelte comunicative, per trasmettere efficacemente valori e competenze al pubblico che cerchiamo. Speriamo ci sia una presa di coscienza ampia e globale di tutti i nostri organi di governo, che non si limiti esclusivamente al trovare il modo di sanzionare i responsabili di scorrettezze, ma che si adoperi anche a creare spazi di confronto e formazione sul tema.
Identità professionale e/o personale, normativa assente? Il Codice Deontologico basta o avremmo bisogno di ulteriori linee guida? Chi dovrebbe realizzarle?
È complesso rispondere a questa domanda, vi è di fatto, in ambito giuridico un dibattito attorno alla regolamentazione di alcuni comportamenti sui social. È interessante osservare alcune caratteristiche delle dinamiche, soprattutto gruppali, che avvengono sui social. Alcune a mio modesto avviso ricordano le folle come concettualizzate da Gustave Le Bon (più o meno!). È importante, per chi si propone sui social come professionista, conservare un occhio metacognitivo verso alcune dinamiche social-i, per evitare di venirne travolti. Capita sempre più spesso infatti che esternazioni equivoche fatte sotto l’influenza dell’irrazionale spinta collettiva poi debbano essere giustificate dal singolo anche in virtù della propria esperienza e conoscenza professionale. Se ad esempio commentiamo un post di un politico che riguarda una proposta di legge sull’immigrazione, l’uso dello smartphone in classe, il divorzio, l’aborto… ecc dobbiamo aver contezza di ciò che diciamo, sicuramente da un punto di vista politico, ma anche da un punto di vista professionale perché sui social non si fa distinzione, ma si fa anche tanta confusione, tra pubblico e privato. Credo che in questo senso quindi il CD debba essere interpretato e declinato nel contesto, sicuramente gli Ordini professionali potrebbero dare una mano.
Sono pronti gli psicologi e i loro followers per i social?
Certo che sono pronti! Alcuni non lo sanno ancora ma sono pronti. Noi, come categoria, abbiamo la possibilità e la capacità di risultare più pronti di altri e anche di aiutare, chi ancora non è pronto, ad esserlo!
Errori comuni, errori fatali, errori da non compiere -oltre a tutti quelli che abbiamo già analizato
Credo che l’errore comune, fatale e da non compiere sia principalmente uno: pensare che i social non ci riguardino, che possiamo esserne immuni, che non ci servano e che siano solo IL Male. Questo ci taglierebbe fuori da una grossa fetta di umanità, ci porterebbe ad una confusione delle lingue di Ferencziana memoria.
C’è un aspetto, un apporto, che possiamo dare solo noi, non altri, secondo te?
Io credo che ci siano tanti modi in cui una società può decidere di organizzarsi. So anche che noi Italiani scegliemmo questa forma ed in questa forma abbiamo pensato di organizzare delle categorie di professionisti, riconosciute dalla legge, certificate dallo stato, nel rispetto della costituzione, per tutelare l’utenza riguardo ad alcuni ambiti perché
riconosciuti come di cruciale significatività sociale. Credo che non solo possiamo ma dobbiamo dare il nostro apporto alla promozione e tutela del benessere psicologico individuale e collettivo. Questo è richiesto solo a noi, solo a noi è richiesto di avere le competenze per farlo ed è nostro specifico dovere impegnarci per realizzarlo in ogni contesto.
Suggerisci tre pagine che secondo te sono da seguire, come modello di comunicazione
Ce ne sono tante, provo a nominarne tre, molto diverse tra loro, anche per dire che non c’è UN modo per costruire una pagina professionale, ma è prioritaria l’idea e l’obiettivo che ci si prefigge di raggiungere.
Psicologia applicata è un esempio perfetto di come si divulghi un contenuto. È decisamente affascinante vedere come sia riuscita a crescere così tanto in così poco tempo.
Psicologia SenzaCamice – Ada Moscarella (congiuntamente al sito) racconta in maniera decisamente precisa la vita di uno psicologo libero professionista e credo sia un punto di riferimento per molti di noi.
Dr. Gianluca Lo Presti che è un collega che si occupa di Psicopatologia dell’Apprendimento. Riesce ad unire, secondo me molto bene, competenza e capacità di comunicazione di contenuti.
Paola Serio il 24 novembre a Firenze terrà l’intervento “Psicologia e social network: essere psicologi ai tempi dei social“, approfonendo il comportamento degli psicologi sui social e le ripercussioni. Io la ringrazio per questo confronto che ho trovato piacevole e illuminante.