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La maschera dell’ADHD

bambino sorridente

V. è un bambino di 7 anni che frequenta la seconda elementare ed è affetto da ADHD in comorbilità con un Disturbo della Condotta (DC) ed un Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) diagnosticati già da un anno e mezzo. Quando l’ho visto la prima volta, appena all’inizio della scuola, sembrava un bambino come tutti gli altri.

Man mano che continuavo ad osservarlo, senza ancora presentarmi a lui, notavo che nonostante il suo problema (i sintomi nucleari dell’ADHD come iperattività, impulsività e inattenzione erano abbastanza palesi) era comunque molto integrato ed accettato dal resto della classe. Inoltre alcuni dei suoi insegnanti mi sono sembrati essere ben informati ed al corrente delle sue difficoltà.

Tuttavia ho trovato anche insegnanti il cui parere a riguardo mi ha lasciato molto perplesso, insegnanti che parlavano di V. come se stessero parlando di un bambino molto intelligente (ha un Q.I. superiore a 120) ma di base svogliato ed indisciplinato per cui la priorità era di tenerlo a bada senza che disturbasse la classe.

Quasi come se il suo disturbo fosse una “maschera” con cui giustificare il fatto che fosse un semplice bambino capriccioso ed indisciplinato.
Ho pensato immediatamente che il primo passo da fare fosse quello di creare un rapporto di fiducia col bambino, di costruire una relazione in cui egli non mi vedesse come una sorta di “cane da guardia” ma come una figura di riferimento, di guida, d’aiuto.

E’ mio parere, infatti, che oltre alla consapevolezza delle proprie difficoltà (non proprio immediata per un bambino di 7 anni), è anche necessario avere fiducia nella persona che ci sta aiutando. Ch’essa sia un nostro amico, familiare o semplicemente noi stessi.

Tuttavia, la questione si è rivelata molto delicata perché, essendo V., in primis, un bambino e avendo, come se non bastasse, un disturbo conclamato le cui comorbilità sono appunto DOP e DC, c’è il rischio che il confine fra “rapporto di fiducia” e “rapporto di confidenza” venga spesso reso labile. Ciò non gioverebbe né al bambino né al mio punto di vista che perderebbe la concezione del disturbo.

Il primo punto d’incontro, fra me e V., è stata la musica. Figlio di un rocker, V. arrivava a scuola cantando brani di Ozzy Osbourne e degli Iron Maiden, così ho deciso di portare in classe una chitarra e suonare, in appositi momenti strutturati, qualcuno dei suoi brani preferiti. Così facendo, oltre a creare un rapporto di affinità e simpatia che è andato a rafforzare la fiducia, ho anche avuto modo di notare quanto le emozioni positive agissero sul disturbo giocando un ruolo fondamentale nel rendere il bambino più collaborativo e meno irrequieto.

Analogamente, a seguito di episodi spiacevoli di cui V. si è reso protagonista (come aggressioni fisiche a delle sue compagne di classe) con conseguenti punizioni, le emozioni negative hanno avuto una ripercussione quasi totalizzante nel comportamento del bambino. Infatti, i genitori hanno riportato persino che nei giorni di punizione a scuola, a casa, il figlio si era rivelato ingestibile.

Un altro punto d’incontro che sembra tutt’ora rappresentare una grandissima risorsa sembra essere stato un videogioco.

Questo gioco (il cui tempo dedicato, ovviamente, è un premio stabilito da contratto), chiamato Syberia, parla delle avventure di un anziano disabile alla ricerca dei Mammuth e di una popolazione di uomini preistorici creduti estinti. E’ un’avventura basata solo ed esclusivamente su enigmi e logica per poter proseguire nella storia e dove questa viene narrata per iscritto.

Quando V. si trova davanti a questo gioco spariscono tutte le refrattarietà alla lettura e all’impiego delle sue risorse cognitive e sembra calmarsi completamente. Questo premio è talmente desiderato dal bambino da riuscire a cambiare repentinamente il suo comportamento in qualsiasi momento.

Una volta, quindi, stabilita una relazione di fiducia ho pensato di poter passare all’intervento attivo vero e proprio riguardo i lavori scolastici e, soprattutto, la concezione che il bambino ha di alcuni suoi comportamenti negativi.

L’uso del pc per scrivere durante gli esercizi di italiano sembra lenire la sua refrattarietà derivante dall’annoiarsi ad usare la matita; mentre un lavoro di mentalizzazione e di presa di consapevolezza, del bambino, dei suoi stati mentali ed emotivi, sembrano dare, a poco a poco, i suoi frutti.

Attraverso la predominanza di emozioni positive (con ciò che ne consegue a livello dopaminergico e noradrenergico), autoconsapevolezza, metacognizione e, soprattutto, fiducia nelle proprie figure di riferimento, sembrano vedersi, piano piano, i primi frutti del lavoro.

Il trend di miglioramento può non essere costante e perfetto poiché l’ADHD può variare d’intensità a periodo, mostrando anche una lontana ciclicità nelle sue manifestazioni. Tuttavia è necessario che chi segue questo genere di bambini, invece, sia sempre costante e non demorda mai, aggiornando, se necessario, l’intervento in corso d’opera.

Ogni evoluzione è una vittoria condivisa che unisce e rafforza sempre di più un rapporto in cui non si deve mai dimenticare che i comportamenti del nostro assistito non sono capricci o problematiche di diversa natura che si nascondono dietro la “maschera” di una diagnosi.

Siamo anche noi a fare la differenza fra ciò che questi ragazzi potrebbero diventare da grandi e fra ciò che diventeranno davvero e la grandezza di questa responsabilità è eguagliata solo dalla soddisfazione e gratificazione, reciproca, nell’essere riusciti a fare del nostro meglio.

Antonino Sidoti, psicologo

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