Da anni mi trovo a ragionare lasciandomi trasportare dal fascino di quel legame che unisce il micro ed il macro quasi in una perfetta riflessione. Un chiaro esempio (ed il primo che carpì la mia attenzione) è la grandissima somiglianza che c’è fra un atomo ed un piccolo sistema planetare dove il nucleo, o il pianeta, trattiene a sé, attraverso le medesime leggi fisiche, le orbite di lune ed elettroni in una caleidoscopica struttura dell'”essere” che si ripete, appunto, dagli atomi alle galassie. Analogamente, anche le dinamiche che veicolano la nostra fisiologia sembrano, in qualche modo, influenzanoil nostro modo di interagire con le altre persone e con l’ambiente in un ipotetico caleidoscopio dell'”esistere”.
A questo proposito volevo parlare delle dinamiche neurofisiologiche della depressione e di quanto queste, con una buona fantasia, possano essere facilmente riconosciute negli effetti sociali di questo disagio.
Un neurone che non ha nulla da dire, muore
Sappiamo bene che i neuroni comunicano fra di loro in una rete tanto fitta ed estesa da creare le cortecce cerebrali. I neurotrasmettitori passano attraverso i neuroni correndo su quei percorsi, quelle “strade” neuronali, che si attivano ogni qual volta pensiamo, facciamo o proviamo qualcosa. L’attività neuronale può benissimo essere vista come una sorta di telefono senza fili fra i vari neuroni. Quando un neurone smette progressivamente di comunicare, cessa anche progressivamente la sua attività sino all’avvizzimento ed alla morte. Questo è il modus operandi della depressione.
Da fuori, ciò che vediamo, è una persona che progressivamente si isola e che, inerme, subisce passivamente la vita spegnendosi nella sua attività. Queste persone, come i neuroni che non ricevono più comunicazioni dai limitrofi, vedono rarefarsi la propria rete sociale, fattore che porta ad alimentare il circolo vizioso per cui il reagire è sempre più difficile, come se l’individuo si abbandonasse alla “forza di gravità” della depressione. L’isolamento e l’abbandonarsi al peso della depressione crea una situazione in cui, assieme alla comunicazione della rete sociale, vengono meno anche gli stimoli portando così ad una specie di torpore, avvizzimento, motivazionale. In giovinezza, i neuroni tendono solo a spegnersi poiché vi sono molte risorse ancora disponibili per far fronte ad una perdita cospicua di materia cerebrale ma, se ciò dovesse accadere quando le risorse già sono più rade come nell’anzianità, il processo neurofisiologico della depressione può avere un esito molto più nefasto.
Sebbene possano manifestarsi deficit cognitivi in gioventù, correlabili ad uno stato depressivo, può accadere che questi si instaurino e peggiorino esponenzialmente con l’età avanzata, proprio perché la plasticità cerebrale dell’anziano è notevolmente ridotta (mentre nel giovane risponde bene alle stimolazioni). Oggi sappiamo, infatti, che depressione e demenza (quindi neurodegenerazione) sono spesso confuse per sovrapposizione di sintomi nell’anzianità. Tutto ciò proprio perché le due patologie mostrano dinamiche neurodegenerative estremamente simili, seppur rimanendo due patologie diverse (ma quasi sempre comunque concomitanti, infatti, è molto più probabile che, ad una data età, una depressione possa rappresentare l’anticamera di un MCI). L’effetto che sortisce una depressione, specialmente a lungo termine, ho la presunzione di dire che possa essere imitato, alle volte esacerbato, da tratti di personalità particolarmente negativistici come ad esempio la tendenza al sarcasmo, al cinismo, al pessimismo.
Gli umani sono animali sociali, nascono, crescono e muoiono con il principale scopo di legare fra di essi e, con essi, legami quanto più profondi possibile e di garantire la continuità della specie, della vita. E’ nella nostra natura. I neuroni nascono crescono e muoiono col medesimo scopo: comunicare e instaurare legami più profondi possibile, con gli altri neuroni per garantire la continuità del “messaggio”.
Con una buona fantasia, appunto, è possibile scorgere questo frattale, questa logica che dal micro si riflette anche nell’immagine che ci si prospetta se tentiamo di allontanare un po’ lo sguardo in un’ottica un po’ più generica. E’ ovvio che i livelli non possono assolutamente essere solo due, vi sono sfumature, dettagli, dinamiche che esulano da questa logica per abbracciarne magari un’altra che potrebbe essere, perché no, una qualche legge della fisica come l’attrazione gravitazionale o la legge dell’entropia.
Conscio che tutto ciò altro non è che una mera dissertazione filosofico-scientifica, che dà una lieve tinta di mistero alla nostra materia di studio, spero che possa comunque aprire nuovi spunti di riflessione e di confronto.
Antonino Sidoti, psicologo