Siamo sempre connessi, sempre online, sempre distratti. La tecnologia, che ci ha aperto infinite possibilità, sembra ormai dettare i ritmi delle nostre vite. Ma a quale costo? Dietro gli schermi si nascondono insidie che possono compromettere la nostra capacità di vivere in equilibrio.
L’abuso di social e videogiochi ci spinge spesso a rimandare ciò che conta davvero, trascinandoci in un circolo di procrastinazione, distrazioni e perdita di focus sugli obiettivi. Per alcuni questa immersione nel digitale diventa un labirinto da cui è difficile uscire, con effetti disastrosi sulla produttività, le relazioni ed il benessere mentale.
Per fare luce su questi temi e scoprire come ritrovare il controllo, ho fatto una chiacchierata con il collega psicologo dott. Simone Zamboni, esperto di Digital Wellbeing. Gli ho posto sei domande per capire come orientarci nel difficile rapporto con la tecnologia, per usarla e non esserne usati.
L’obiettivo finale? Ristabilire un equilibrio, riportando l’attenzione sulle attività che davvero contano e migliorando complessivamente la qualità della vita. Si tratta di tornare a dare spazio a momenti significativi, relazioni autentiche e interessi personali, riducendo l’impatto negativo dell’eccesso di tecnologia sul benessere quotidiano.
Indice
Vorrei iniziare con un grande classico. Raccontami un po’ di te e del tuo percorso. Come è nata la passione per la psicologia e, in particolare, per il tema del benessere digitale?
La mia passione per la psicologia è nata durante il quinto anno di liceo scientifico. Ricordo bene alcune lezioni su Freud: merito di un professore di filosofia che sapeva rendere la materia accessibile agli studenti, semplificando i concetti senza banalizzarli.
Il tema del benessere digitale, invece, è emerso più avanti, quando ero già in ateneo. A quei tempi nessuno ne parlava in maniera scientifica: i social erano ancora in espansione ed il concetto di “dipendenza da tecnologia” era praticamente sconosciuto. C’era solo un professore appassionato di videogiochi che alcuni anni dopo iniziò ad utilizzarli come strumenti di formazione e terapia. Io, invece, sono stato attratto da un altro aspetto: l’abuso. Osservavo come l’eccesso potesse avere effetti profondi e negativi sulla mente e quella curiosità è diventata presto un impegno di studio e, infine, di lavoro.
È un tema che interesserà molti genitori, quindi ti chiedo: quali sono, secondo te, i segnali più comuni di dipendenza da tecnologia nei bambini e negli adolescenti, e come ci si accorge dei primi campanelli d’allarme?
Uno dei segnali principali è la quantità di tempo trascorsa davanti ad uno schermo: con il tempo alcuni ragazzi sviluppano una vera e propria tolleranza, il che significa che per provare soddisfazione devono aumentare le ore passate online. Così, quella che iniziava come un’ora al giorno può facilmente diventare due, poi tre, fino a trasformarsi in un’abitudine quotidiana decisamente ingombrante.
Un altro segnale da osservare è la perdita d’interesse per attività che un tempo erano attraenti. Sport, lettura, giochi creativi o momenti con gli amici: quando la tecnologia diventa l’unico passatempo, è il momento di fare attenzione. Il rischio, infatti, è che il mondo digitale prenda il sopravvento, impoverendo la varietà di esperienze che sono essenziali per un sano sviluppo emotivo e sociale.
Impostare dei limiti può essere una strategia sana? Se si, quali paletti ritieni più utili?
Si, impostare dei limiti è sicuramente un ottimo metodo per prevenire il problema. Quindi meglio cominciare fin dalla giovane età, anche perché l’accesso a Internet, e al mondo digitale in generale, avviene in età sempre più precoce. Non vorrei però parlare di semplici limiti di tempo, che devono essere valutati di caso in caso.
Piuttosto riflettiamo anche su questi temi:
Innanzitutto, il tempo di gioco o svago digitale non dovrebbe mai avere priorità su altre attività come sport, studio o momenti sociali. In altre parole lo schermo non dovrebbe sostituire esperienze che arricchiscono realmente. Un’altra strategia fondamentale è quella delle regole condivise: non dovrebbero essere imposte, ma stabilite insieme. Ad esempio, si può concordare che durante la cena nessuno usi il telefono, spiegando il valore di quel momento di qualità e comunicazione familiare.
Quando i bambini vedono i genitori rispettare queste regole, imparano che il digitale è uno strumento, non un fine. E se capita di fare eccezioni, è importante spiegare il motivo, mostrando piena trasparenza.
Cambiamo argomento. Si sente spesso dire che i social media hanno un impatto sull’autostima e sullo sviluppo emotivo dei giovanissimi. Cosa ne pensi? Secondo te ci sono fasce d’età più vulnerabili?
Parli di un ambito che negli ultimi anni desta grande interesse e sono d’accordo con quello che dici: l’impatto dei social sulla vita può essere molto grande. Ci sono diversi studi che indagano i possibili effetti di modelli di vita irrealistici e spesso tossici promossi online. Mi viene in mente, ad esempio, la cultura dell’”hustle” a tutti i costi, con figure che spingono i giovani a sacrificare tutto per soldi e successo, o il culto del corpo perfetto e inarrivabile che può minare profondamente l’autostima.
Le fasce d’età più vulnerabili sono sicuramente quelle in cui l’identità è in via di formazione, quindi pre-adolescenti e adolescenti. In questi anni si è più inclini a confrontarsi con gli altri, cercando conferme e approvazione. Se queste conferme arrivano solo dai like o dai follower, il rischio è che si sviluppi un’autostima troppo dipendente dal giudizio esterno.
Per gli adulti che sentono di avere un rapporto non sano con la tecnologia, quali pensi siano i primi passi per recuperare il controllo e avere un benessere digitale più equilibrato?
Sono convintissimo che il primo passo debba essere la consapevolezza, perché solo comprendendo davvero il problema una persona può iniziare a gestirlo. Con alcuni pazienti avvio il percorso psicologico proprio con una fase informativa, in cui suggerisco di visionare il materiale che ho creato appositamente per questo scopo. Si tratta di video e risorse basate su solide ricerche scientifiche, pensati per illustrare, ad esempio, l’impatto neurologico che l’abuso di tecnologia può avere, oppure mostrare le tecniche psicologiche utilizzate da social e videogiochi per trattenere gli utenti il più a lungo possibile. L’obiettivo non è spaventare, ma aiutare a sviluppare una consapevolezza critica di questi meccanismi, per riportare il controllo dell’esperienza digitale nelle proprie mani.
La conoscenza è potere, poi concordiamo un percorso di cambiamento per trovare altre attività appaganti e spostare le energie che si dedicavano ai social o ai videogiochi ad obiettivi di vita costruttivi.
Interessante! A questo punto credi che possano esserci app utili? Penso ad esempio a quelle dedicate alla meditazione, all’attività fisica o al diario personale.
Non vorrei essere frainteso: la tecnologia può sicuramente essere una risorsa preziosa nella nostra vita. Negli ultimi vent’anni ha trasformato il nostro modo di lavorare, di comunicare, e persino di cucinare, con migliaia di ricette a portata di clic ed elettrodomestici sempre più “smart.” Tuttavia, alcune applicazioni si prestano più di altre a creare dipendenza. I social media ed alcuni videogiochi, ad esempio, sfruttano abilmente meccanismi psicologici come il rinforzo intermittente ed il sistema delle ricompense, creando quel desiderio compulsivo di “scrollare” o giocare ancora un po’.
Al contrario, come giustamente dici tu, è molto più difficile sviluppare un rapporto malsano con app per la meditazione, l’allenamento o il diario personale, che solitamente non fanno leva su questi “trucchetti” psicologici. Però lasciami concludere con una riflessione: non vorrei che delegassimo allo smartphone tutta la cura della nostra salute. Vorrei invece che tornassimo ad ascoltare il nostro corpo e ad essere i protagonisti del nostro star bene. Voglio dire, abbiamo davvero bisogno di uno smartwatch che ci dica se abbiamo dormito bene o male, per sentirci energici o stanchi quando ci alziamo dal letto la mattina? Il rischio è di delegare alla tecnologia anche il rapporto con il nostro corpo.